Pubblico di seguito il testo della mia intervista con Andrea Muzzarelli di “Italians in Fuga “.
Ciao Matteo, ci potresti spiegare perché ti definisci un “misfit”, un disadattato?
Ho cominciato a definirmi un “misfit” attorno ai 22-24 anni. Al termine di un’adolescenza passata ad assorbire passivamente la società nella quale vivevo ho realizzato quali erano i miei veri e personali interessi, i miei ideali e le mie aspirazioni: mi sono reso conto che non avevano niente a che fare con la cultura italiana nella quale ero nato! Mi sono scoperto fortemente contrario ad alcuni aspetti di questa cultura che invece sembrano essere generalmente bene accetti: dalla corruzione radicata (dai livelli più alti della politica a quelli più bassi di una locale amministrazione) al nepotismo come selezione naturale per un importante posto di lavoro. Dall’evasione fiscale alle quotidiane interferenze politiche da parte di uno Stato religioso (nonché estero) nei confronti di uno Stato che si definisce laico. Sino all’imbonimento generale dei cittadini, felici di barattare la seria informazione per un paio di natiche rosa della velina di turno.
Dopo avere maturato il mio disappunto, ho deciso che non avrei voluto passare la vita né a zittire la mia coscienza, né tantomeno a combattere qualcosa che la maggior parte dei miei connazionali accettava. Così mi sono definito un “disadattato” e mi sono orientato verso altri paesi in cerca di una mentalità diversa.
Che valenza ha per te il viaggio? È più una fuga o una scoperta?
Viaggiare è a mio parere una grandissima possibilità che ci viene concessa per permetterci di scoprire nuovi luoghi, nuove culture, nuove mentalità e nuove idee. Personalmente, viaggio con lo scopo di scoprire nuove culture, per provare quella sensazione di fascino verso il “nuovo” che un po’ spaventa e un po’ scalda il cuore. L’incontro con culture e mentalità nuove è qualcosa che fa scattare in me una sincera autoanalisi.
Ci sono state ovviamente un paio di occasioni nelle quali viaggiare ha avuto per me un ambivalente significato di fuga e di scoperta: la prima è stata a New York nel 2005, la seconda a Londra nel 2006.
Tra i luoghi che hai visitato, ce n’è uno che ti ha colpito in particolare?
Il Giappone è un paese che ho marchiato a fuoco nella mente e nel cuore. Soprattutto per l’incredibile contrasto tra la realtà della campagna – dove templi buddhisti e scintoisti sono incorniciati dagli incantevoli colori della natura – e l’eclettica vita notturna di città come Tokyo o Osaka. La società estremamente nazionalista spinge i cittadini a nutrire un senso di grande rispetto verso lo Stato e i propri connazionali, e questo proietta spesso all’estero l’immagine dei giapponesi come manipolati dallo Stato, quasi sottomessi. In realtà si tratta di un popolo incredibilmente unito e di grande cuore, e questo in altre società non viene spesso compreso.
Parliamo del tuo primo soggiorno a New York, che hai descritto come una bellissima esperienza. Che cosa ti hanno dato quei tre mesi nella Grande Mela?
New York è una città splendida, che ogni cittadino appartenente alla cultura “occidentale” sente naturalmente come casa propria per via del suo fattore “glamour” – cioè per tutte le sue storie d’amore, avventure di supereroi e racconti gangster che abbiamo vissuto sui nostri schermi TV da quando siamo nati. Sono “fuggito” nella Grande Mela nel mio primo momento di “rifiuto” verso la società italiana, abbandonando il mio contratto di lavoro fisso e contro i suggerimenti delle persone a me care. Là ho trovato quel forte senso di libertà e di possibilismo di cui avevo bisogno.
Ho lavorato per tre mesi in un ristorante, dalle otto alle dodici ore al giorno: è stata molto dura, ma la sensazione di appartenere a una società “libera”, di vivere il famigerato American Dream, mi ha fatto tirare fuori una grinta che non sapevo di possedere. Ho vissuto ogni giorno al massimo, dal momento in cui mi svegliavo la mattina fino al momento in cui crollavo esausto sul letto la sera. Quando il fatidico giorno del rientro in Italia è giunto, ho pianto tanto.
E una volta rientrato, sei caduto in uno stato che hai descritto come “passivo-aggressivo”…
Aver lavorato per tre mesi in una società dove per la prima volta mi ero sentito a mio agio, con amici dalle esperienze simili alla mia e in una città che amavo, è qualcosa che non è stato facile accettare di perdere. Tornare nella società italiana, con la sua mentalità a me così ostile e le sue contraddizioni, mi ha mandato in stato confusionale. Da un lato le persone a me care mi spingevano a cercare un nuovo lavoro e a indossare nuovamente la vita che mi ero lasciato alle spalle. Dall’altro c’era il mio disagio, che mi diceva che quella vita non la volevo più.
Quando alla fine hai deciso di ripartire, hai scelto Londra. Perché proprio questa città e non, magari, di nuovo New York?
Una volta compreso che il mio viaggio a New York era stata l’espressione non di un temporaneo desiderio di fuga, ma di un sincero desiderio di vivere in una società diversa da quella italiana, ho preso la decisione di partire nuovamente.
Se avessi potuto, sarei tornato immediatamente nella Grande Mela. Tuttavia, la procedura e i prerequisiti per ottenere un visto di tipo lavorativo mi hanno costretto ad abbandonare l’idea. Ho così deciso di sfruttare il vantaggio di essere un cittadino dell’Unione Europea per cercare lavoro in una realtà cosmopolita come quella londinese. Una scelta che si è rivelata ottima. Mi sono rapidamente integrato in una città che adoro.
Ci descriveresti il tuo attuale lavoro?
Dato che in Italia la mia professione era quella di disegnatore tecnico AutoCAD in ambito meccanico, al mio arrivo a Londra ho cominciato a mandare il mio curriculum a ogni agenzia di lavoro specializzata nel settore. Ipotizzando che la cosa fosse troppo ambiziosa, e ancora temprato dall’esperienza newyorkese, nel frattempo ho fatto domanda anche in diversi bar e ristoranti.
Invece, con mia grande sorpresa, dopo avere lavorato qualche giorno come “ricercatore di mercato” (ossia in un call center) e come consulente occasionale in un’azienda d’ingegneria marittima, sono stato chiamato a colloquio da un’Investment Bank in cerca di un impiegato temporaneo per un progetto di rinnovamento interni della durata di tre mesi. Inutile dire che lavoro per la stessa banca da quasi cinque anni.
“Nel mondo del lavoro anglosassone c’è più meritocrazia”. Verità o luogo comune?
Ovviamente s’intende “rispetto alla realtà lavorativa italiana”… Beh, direi sia una verità, e credo di esserne un buon esempio. Come ho accennato, sono entrato nel mio attuale posto di lavoro in qualità di aiutante temporaneo, avendo come unico compito quello di trasmutare disegni tecnici dalla versione cartacea a quella elettronica. Nei tre mesi della durata del mio contratto ho però attentamente analizzato il progetto, me ne sono sinceramente interessato, ho fornito le mie idee, i miei dubbi e i miei consigli, e questi sono sempre stati – con mia piacevole sorpresa – ascoltati e presi in considerazione.
Ho proposto di cambiare il sistema di gestione dei fogli di calcolo e dei piani di disegno: la mia idea è stata ritenuta utile ed è stata accolta con entusiasmo dai dirigenti. Al termine del contratto ero già incredibilmente maturato a livello professionale, e ben presto mi è stato proposto di entrare a fare parte dell’organico aziendale in maniera permanente.
Nei primi tre anni di impiego sono passato da semplice disegnatore AutoCAD a coordinatore di progetto. Io: un immigrato senza titolo di studio, con un inglese tutto fuorché britannico, senza una minima conoscenza della società anglosassone, in un’Investment Bank nella City di Londra. Se questa non è meritocrazia…
Dopo quasi cinque anni passati a Londra, qual è l’idea che ti sei fatto di questa città?
Londra è una città meravigliosamente cosmopolita, come New York. Entrambe infatti condividono la medesima fusione di diverse etnie, lingue, religioni, nonché contraddizioni. A differenza di New York, però, Londra non è stata concepita fin dalla sua nascita per essere una metropoli: il suo sistema di treni sotterranei è piccolo e impacciato, la sua planimetria non è divisa a scacchiera, le sue strade non sono numerate ma hanno nomi di conti e duchesse d’altri tempi. Questa particolare combinazione di elementi la rende a mio parere unica e affascinante.
Innanzitutto, alla prova pratica è impossibile conoscere completamente questa città. Ci sono talmente tante realtà locali che, se incontrassimo due persone residenti in diversi quartieri, ci descriverebbero inevitabilmente due città diverse. Inoltre, le etnie presenti sono più mischiate fra loro rispetto ad altre metropoli per la maggiore difficoltà di creare quartieri “propri”.
Questo spinge i londinesi ad avere una mentalità più aperta e ricettiva verso le opinioni e le usanze altrui, aggiungendo valore al “melting pot” della città e creando un’atmosfera incredibilmente ispiratrice e multiforme.
Prima di andare all’estero credevo di essere l’unico a non sentirsi a proprio agio nella realtà italiana. Inizialmente, ho creato il blog “Life of a Misfit” per tentare di esprimere quello che provavo, le sensazioni che mi avevano spinto a partire.
Soltanto in seguito ho scoperto che c’erano molte altre persone, in Italia come all’estero, che condividevano le mie opinioni: persone che, come me, hanno ideali, sogni e speranze per un’Italia diversa. Molti di loro vivono all’estero e leggono il mio blog perché in qualche modo sono passati per la stessa strada e hanno provato le stesse cose.
Altri, invece, sono residenti in Italia, e pur avendo l’intenzione di partire si trovano a convivere con una mentalità generale che non condividono: li ammiro moltissimo e mi danno quotidianamente una lezione di coraggio.
Infine, ci sono quelli che vivono nel Belpaese, ma sognano quotidianamente di lanciarsi in un’avventura all’estero, magari senza trovarne il coraggio. Lasciare il proprio paese così, senza sapere cosa si andrà a trovare, è un po’ come lanciarsi da un trampolino alto: a volte crediamo di non avere il coraggio, a volte basta una parola di conforto, altre ancora abbiamo soltanto bisogno di una piccola spinta.
Oggi, a trent’anni, ti senti più “stabilizzato” o ti sta tornando la voglia di partire e, magari, di trasferirti in un altro paese?
Devo dire di non avere sentito per niente il tanto temuto “salto” dei trent’anni. Forse perché mentalmente avevo già raggiunto quest’età da tempo, o forse perché gli occhi sono lontani dagli standard della società italiana e dalle insistenti richieste familiari che ti vorrebbero sposato ed accasato attorno a quest’età.
Qui la vita sembra essere più libera da certe barriere mentali, la gente non s’interessa troppo dei fatti altrui. Con un po’ di autoanalisi credo di potermi ritenere soddisfatto della vita che conduco: ho un lavoro che mi piace, frequento amici ai quali sono molto legato, e vivo in una città che mi riempie di stimoli. Se un giorno dovessi sentire che una o più di queste cose è venuta a mancare, o non dovessi più essere soddisfatto del mio stile di vita… Beh, probabilmente prenderei in considerazione l’idea di partire di nuovo.
Il mondo è grande e le possibilità infinite, e credo sia sbagliato sentirsi legati a un luogo contro la propria volontà: “casa” non è il luogo dove si vive o dove si è nati, ma quello in cui il cuore si sente a proprio agio.
Nonostante i recenti festeggiamenti per i suoi 150 anni, l’Italia è un paese in evidente crisi di identità e valori. Montanelli prevedeva un futuro brillante per gli italiani – inclusi quelli “in fuga”, bravissimi a suo giudizio nell’integrarsi nei paesi ospitanti. Ma non vedeva un futuro per l’Italia, priva di memoria storica e di un’autentica identità nazionale. Secondo te aveva ragione?
Credo che l’Italia sia una nazione molto giovane da un punto di vista istituzionale, e molto inesperta da un punto di vista democratico.
La mia idea è che purtroppo l’Italia non sia stata fatta dagli italiani: è stata fatta da torinesi, milanesi, napoletani, palermitani, ognuno legato alla propria realtà locale prima che alla propria nazione. Questo sentimento è vivo e sentito ancora oggi: non è raro per un italiano osservare lo Stato quasi come fosse un’entità sospetta, d’intralcio, a tratti ostile.
Manca la concezione di un’organizzazione superiore che possa gestire il patrimonio di un intero paese. Questo interesse per il personale – o, per meglio dire, questo “disinteresse per il collettivo” – si proietta sulle persone elette dai cittadini. Le quali, di riflesso, una volta giunte al potere, si fanno “i fatti propri” senza che i cittadini stessi le contestino – e come potrebbero, quando ne condividono la stessa mentalità, e dunque li ammirano? Per questo motivo la visione di Montanelli è a mio parere corretta: l’italiano è estremamente indipendente, e questo lo valorizza soprattutto all’estero – dove paradossalmente l’identità italiana assume davvero corpo – ma finché non saprà riconoscersi nel proprio popolo non sarà in grado di fidarsi nemmeno di se stesso.
Per concludere: che città (o paese) consiglieresti a un giovane che voglia fare un’esperienza all’estero di qualche mese?
La prima cosa che suggerisco, a prescindere dal luogo in cui si viaggia, è di portare con sé la volontà di osservare una cultura diversa e di impararne qualcosa. Molti italiani “medi” continuano la vita che facevano in Italia con tanto di ristoranti italiani, film italiani e amici italiani. Quella non è un’esperienza all’estero: è un’opportunità sprecata.
Detto questo, ogni paese è buono, basta identificare quel luogo che, per un motivo o per l’altro, cattura di più la nostra attenzione. Nel mio caso, la musica è stata un modo semplice e naturale per avvicinarmi al Regno Unito e immergermi nella sua affascinante cultura. Ma la musica è soltanto un esempio: se c’è passione e curiosità tutto è a portata di mano. In fondo, non dovrebbe essere tanto il paese ad affascinarci, quanto l’uomo e le sue idee.
Grazie Matteo, e buon proseguimento!
Link all’articolo originale: http://www.italiansinfuga.com/2011/04/21/un-%E2%80%9Cdisadattato%E2%80%9D-a-londra/
ecco!bravo! raccomandami, così ci facciamo riconoscere subito!!!
ma toglimi una curiosità: sei riuscito a portare un pò di gusto italiano negli interni di una banca o sono tipicamente inglesi?
Meglio non portare niente di italiano da queste parti.. non vorremmo rovinare tutta questa natura incontaminata.. lol
Mi associo. Notevole intervista, notevole piglio, complimenti davvero.
Belle risposte! 😉
ehi Oby, ho scoperto ora che siamo entrambi tecnici autocad..che storia!!!ho sempre pensato ti occupassi di finanza e titoli di borsa. bene, allora c’è speranza anche per me fuori dal mio ufficio e soprattutto fuori dall’italia!!
Ma come, non si vede la mia mente strettamente “tecnica” nei miei post? 😀
Pensa che quando sono partito per il Giappone il mio capo si é disperato per trovare un rimpiazzo, a saperlo ti avrei potuto raccomandare (proprio all’italiana :D)!
Per lavorare nella tua azienda hai dovuto sostenere degli esami di lingua tipo IELTS o TOEFL?
No, peró i pre-employment checks per il settore finanza sono piú invasivi di una rettoscopia dato che devi dimostrare cosa hai fatto in ogni momento della tua vita.
Dopo questa intervista si può notare che non sono n fuga solo i cervelli ma anche le persone senza laurea.
Nel senso, non che Oby non abbia un cervello, anzi…. Ma quando si parla di cervelli in fuga, i media si riferiscono ai laureati.
Conosco altre persone emigrate con solo un diploma e mi spiace che di questi i media non si interessino. Soprattutto mettono in mostra il problema economico di queste fughe, ma la realtà è che chi fugge non lo fa solo per uno stipendio più riguardevole, ma anche perchè in Italia si vive male dentro, nello spirito.
Esatto. Al di lá del fatto che in Italia in generale una laurea vale meno di una raccomandazione, e che la disponibilitá di lavoro é talmente scarsa che é impossibile che tutti i laureati trovino impiego nei loro ruoli di specializzazione: chi emigra la fa anche perché non si sente a suo agio in una societá allo sfascio, altrimenti accetterebbe volentieri di fare un lavoro meno “appagante” con la prospettiva di una posizione migliore nel futuro. Ma in Italia questa prospettiva non c’é, emigrano tutti e basta.
Ciao a tutti e ciao Oby, questo sito è molto interessante. Vivo in Italia e ho intenzione di emigrare.
Parlo un discreto inglese e vorrei provare a vivere in Inghilterra.
Al di là dei suoi pregi, credo di aver capito che Londra è una città costosa e abbastanza caotica (correggimi se sbaglio).
Io non amo molto la vita frenetica e ho le tasche abbastanza vuote. Pensi che dovrei ugualmente tentare l’avventura londinese?
O magari dovrei tentare in qualche altra città inglese?
Gli stipendi londinesi in generale permettono un tenore di vita alla pari con il costo della vita, quindi anche dove i costi sono piú alti (ma Londra puó anche essere molto economica!) difficilmente ci si lamenta.
Per il discorso della cittá caotica, beh, é ovviamente vero.. dipende anche da quali zone frequenti e quanto spesso usi i trasporti pubblici, ma se sai evitare le zone affollate dai turisti questa cittá puó diventare anche incredibilmente “local”.
Altre cittá inglesi, sí, ci sono, e tante, ma tieni a mente che sono “inglesi”, Londra é una cittá completamente diversa, molto piú cosmopolita.
Ci sto pensando seriamente. Andrei un po’ all’avventura, ma quello non è un problema.
Mi preoccupa più il fatto di non avere una laurea e di aver lavorato saltuariamente e a nero.
Grazie per le info.
Che bella intervista, complimenti.